Commento a Corte di Cassazione – Sezioni Unite Civili – sentenza del 14 dicembre 2023 – n. 35092
Commento di Diotima Pagano
Redazione di IURA NOVIT CURIA ©
La pronuncia in epigrafe si segnala per la robustezza motivazionale e l’ampio corredo di principi vari che la stessa esibisce.
Nella presente nota ci si limita ad esplicare i punti salienti di tale culta pronuncia.
Per comodità di analisi si possono individuare tre aree “critiche” su cui le SS.UU. si soffermano:
i) il quesito rimesso al massimo organo nomofilattico;
II) la disciplina della lotta ai ritardi nei pagamenti (Dlgs. n. 231/2002);
III) l’organizzazione convenzionale del Sistema Sanitario Nazionale (SSN).
Il quesito rimesso alle SS.UU.
Procedendo nell’ordine, il quesito rimesso alle SS.UU. può così riassumersi:
La questione , sottoposta all’attenzione della Corte, è se le strutture private che operano in regime di accreditamento con il Servizio Sanitario nazionale siano considerabili imprenditori, ai sensi dell’art. 2 del d.lgs n. 231 del 2002,se le prestazioni di servizi da esse erogate, in conformità alla convenzione con il SSN, in favore dei pazienti dietro corrispettivo, rientrino nella nozione di transazione commerciale di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 231 del 2002, e se pertanto, in caso di ritardo nei pagamenti da parte della pubblica amministrazione, la stessa sia tenuta a corrispondere alla struttura privata gli interessi legali di mora nella misura prevista dall’art. 5 del d.lgs. n. 231 del 2002 ( nel testo anteriore alla novellazione di cui al d.lgs. n. 192 nel 2012, pro tempore applicabile), o se piuttosto la posizione di tali strutture non debba essere assimilata a quella delle farmacie, alle quali , sulla base del principio di diritto espresso nella pronuncia a Sezioni Unite n. 26496 del 2020, nell’ipotesi di ritardo da parte della pubblica amministrazione nel corrispondere la seconda quota di ristoro relativa alla dispensazione dei farmaci di classe A, gli interessi per il ritardo nei pagamenti non sono dovuti in tale misura , atteso che, limitatamente a tale dispensazione, il farmacista è componente del Servizio Sanitario Nazionale e non è qualificabile come “imprenditore”, ovvero “soggetto esercente un’attività economica organizzata o una libera professione”, ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. c) del suddetto decreto legislativo.
Tre quindi i temi sollecitati alla riflessione:
1) il regime dell’accreditamento;
2) la configurazioni come irrelati in una transazione commerciale dei soggetti accreditati;
3) la differente posizione, in una fattispecie specifica, dei farmacisti: come ben chiarito, infatti, nel corpo della sentenza, allorquando le farmacie erogano farmaci di fascia “A”, sono esse stesse parti del SSN ed escluse dalla sfera applicativa del Dlgs n. 231 cit.
Al quesito proposto le SS.UU. hanno replicato osservando che la questione sollevata va definita sulla base del principio che le prestazioni sanitarie erogate ai fruitori del Servizio sanitario nazionale dalle strutture private con esso accreditate, sulla base di un contratto scritto, accessivo alla concessione che ne regola il rapporto di accreditamento, concluso dalle stesse con la pubblica amministrazione dopo l’8 agosto 2002, rientrano nella nozione di transazione commerciale di cui all’art. 2 del d.lgs n. 231 del 2002, avendo le caratteristiche di un contratto a favore di terzo, ad esecuzione continuata, per il quale alla erogazione della prestazione in favore del privato da parte della struttura accreditata corrisponde la previsione dell’erogazione di un corrispettivo da parte dell’amministrazione pubblica.
La cultura dei pagamenti rapidi
II.1 Rispetto al profilo annesso ai pagamenti (rectius: ai ritardi nei pagamenti) la Cassazione offre una “ricca” pagina ricostruttiva della disciplina elaborata su spinta eurocomunitaria che si riassume in una proposizione degna di attenzione: “È necessario un passaggio deciso verso una cultura dei pagamenti rapidi, in cui, tra l’altro, l’esclusione del diritto di applicare interessi di mora sia sempre considerata una clausola o prassi contrattuale ravemente iniqua.”
Il quadro normativo di riferimento in tema di lotta al ritardo nei pagamenti
“Preliminarmente”, osserva la Corte (qui ed in prosieguo i rimandi si intendono sempre alle SS.UU. in commento) vanno ricostruiti “brevemente” i dati normativi di riferimento , che sono costituiti , da un lato, dal d.lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, che ha recepito la Direttiva 2000/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 29 giugno 2000 relativa alla “lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali”, adottata dagli organi comunitari ai sensi dell’art. 95 TCE (art. 114 TFUE) in vista dell’instaurazione e del funzionamento del mercato interno (art. 14 TCE (art. 26 TFUE)) e del riavvicinamento delle legislazioni nazionali, dall’altro, dalla normativa interna di rilievo in tema di organizzazione del Servizio sanitario nazionale (SNN).
La Direttiva 2000/35/CE
Con la direttiva citata, recepita pienamente nel d.lgs. n. 231 del 2002, il legislatore europeo ha inteso introdurre strumenti di contrasto della prassi, diffusa in tutti gli Stati membri, in forza della quale i pagamenti per le prestazioni di beni e servizi forniti da imprese e liberi professionisti sono frequentemente eseguiti dalle imprese o dalle pubbliche amministrazioni con significativo ed ingiustificato ritardo, agevolato dal carattere normalmente dispositivo delle norme nazionali sui termini per l’adempimento delle obbligazioni pecuniarie, dalle conseguenze non particolarmente gravi del mancato rispetto di detti termini, nonché dalla misura relativamente modesta del tasso legale degli interessi moratori.
Il favor creditoris
Si è ritenuto di fronteggiare il fenomeno – considerato foriero del rischio, oltre che di rallentamento dello sviluppo economico, anche di alterazione del regime della concorrenza, e causa della fuoriuscita dal mercato degli operatori commerciali più piccoli, non in grado di sostenere lunghi tempi di attesa, – attraverso l’introduzione di una serie di misure palesemente ispirate al “favor creditoris”, quali la previsione di un tasso di interessi moratori elevato e di un meccanismo di automatica applicazione degli stessi interessi in caso di ritardo, l’assoggettamento degli accordi derogatori della disciplina comunitaria del termine e del tasso di interesse ad un controllo, di tipo contenutistico, della grave iniquità della pattuizione, l’imposizione ai legislatori nazionali dell’obbligo di riconoscere la validità delle clausole di riserva di proprietà, nonché l’obbligo di assicurare che un titolo esecutivo possa essere ottenuto dal titolare di una pretesa non contestata entro novanta giorni dalla data della proposizione della relativa domanda alle competenti autorità giudiziarie.
“Le transazioni commerciali”
In conformità agli obiettivi della direttiva, il decreto legislativo utilizza lo strumento degli interessi, conformati alle sue regole “centrali” attinenti al tasso e alla decorrenza (artt. 4 e 5), per disincentivare la mora nel pagamento di quelle che qualifica come “transazioni commerciali”, inquadrando nel sistema il suo nucleo relativo appunto agli interessi mediante norme definitorie, e poi disciplinando nel dettaglio alcuni casi specifici, per concludere infine con la norma transitoria che individua il discrimen temporale applicativo.
Ambito di applicazione del Dlgs n. 231/2000: l’art. 1
Giova soffermarsi a questo punto sulla struttura del Dlgs. n. 231/2002.
Il medesimo decreto, al primo comma dell’articolo 1 (rubricato come “Ambito di applicazione”) stabilisce che “le disposizioni contenute nel presente decreto si applicano ad ogni pagamento effettuato a titolo di corrispettivo in una transazione commerciale”.
L’art. 2 del Dlgs. n. 231/2000
all’articolo 2 (“Definizioni”), al primo comma, alla lettera a) definisce transazioni commerciali “i contratti, comunque denominati, tra imprese ovvero tra imprese e pubbliche amministrazioni, che comportano, in via esclusiva o prevalente, la consegna di merci o la prestazione di servizi, contro il pagamento di un prezzo”: una nozione ampia e volutamente priva di un riferimento specifico ad una o più tipologie contrattuali del diritto interno.
La Pubblica Amministrazione nel Dlgs n. 230/2000
Alla lettera b) definisce Pubblica Amministrazione “le amministrazioni dello Stato, le regioni, le province autonome…,gli enti pubblici territoriali e le loro unioni, gli enti pubblici non economici, ogni altro organismo dotato di personalità giuridica, istituito per soddisfare specifiche finalità d’interesse generale non aventi carattere industriale o commerciale, la cui attività è finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dalle regioni, dagli enti locali, da altri enti pubblici o organismi di diritto pubblico, o la cui gestione è sottoposta al loro controllo o i cui organi d’amministrazione, di direzione o di vigilanza sono costituiti, almeno per la metà, da componenti designati dai medesimi soggetti pubblici”, e, infine, alla lettera c), definisce imprenditore “ogni soggetto esercente un’attività economica organizzata o una libera professione”.
Il dies a quo degli interessi: artt. 4 e 5
All’articolo 4, poi, individua il dies a quo degli interessi, all’articolo 5 ne determina il saggio, e all’articolo 11, al primo comma, stabilisce: “Le disposizioni del presente decreto non si applicano ai contratti conclusi prima dell’8 agosto 2002”.
Il Dlgs. n. 231/2000 quale regime speciale delle obbligazioni pecuniarie
Tale disciplina, –avvertono le SS.UU. — anche nell’interpretazione della dottrina, non introduce una nuova disciplina generale delle obbligazioni pecuniarie, ma piuttosto detta un regime di carattere speciale, non estensibile oltre l’ambito oggettivo e soggettivo delineato dal legislatore.
Necessità di una interpretazione uniforme
Poiché le norme citate costituiscono il recepimento di una direttiva comunitaria, il criterio interpretativo da utilizzare (secondo la S. C.) deve essere un criterio interpretativo tendenzialmente uniforme, e volto a conformarsi agli obiettivi che la normativa comunitaria si proponeva di realizzare, esplicitati nei numerosi “Considerando ” della direttiva (espressamente richiamati da Cass. S.U. n. 26496 del 2020) e ripresi da numerose pronunce della Corte di giustizia sul tema.
Ambito oggettivo del Dlgs. n. 231/2002: la transazione commerciale…
Quanto all’ambito oggettivo, il rapporto tra le parti deve trarre origine da una “transazione commerciale”, che il d.lgs. stesso definisce all’art. 2, primo comma lett. A) con nozione ampia, tratta più dal linguaggio operativo degli scambi economici che da quello giuridico.
… non richiamabilità della transazione ex artt. 1965 e seg. C.C.
In nessun modo – avverte la Corte – la transazione ex Dlgs. n. 231/2002 è riconducibile al contratto tipico di transazione disciplinato dagli artt. 1965 e seguenti c.c.) ed è atta ad identificare qualsiasi operazione contrattuale, comunque denominata, tra imprese ovvero tra imprese e pubbliche amministrazioni, che comporti, in via esclusiva o prevalente, la consegna di merci o la prestazione di servizi, contro il pagamento di un prezzo, ovvero lo scambio di prestazioni di beni o di servizi remunerato mediante il pagamento di un corrispettivo in denaro.
Il profilo soggettivo ex Dlgs. n. 231/2002: il termine “impresa”
Quanto al profilo soggettivo, la norma si riferisce a tutte le transazioni commerciali, nell’accezione indicata, intercorrenti tra imprese (ed anche in questo caso, al termine impresa viene attribuito un significato lato e volutamente atecnico, tanto che essa è predicabile anche al libero professionista: l’art. 2, primo comma lett. C), nel dare le definizioni, prevede infatti che si intende per “imprenditore”, ai fini del decreto, ogni soggetto esercente un’attività economica organizzata o una libera professione (lo stesso art. 57 TFUE (ex art. 50 TCE) , nell’individuare le prestazioni considerate come servizi, vi inserisce al punto d), anche le attività delle libere professioni.), o tra un’impresa, nell’ampia accezione sopra indicata, e una pubblica amministrava.
La prestazione accreditata quale transazione commerciale
In argomento, si segnala, nello specifico, che la Cassazione “già da alcuni anni” si è orientata a ricondurre le prestazioni sanitarie erogate, in favore dei fruitori del servizio, da strutture private accreditate con lo Stato nell’ambito della nozione di “transazione commerciale” di cui al d.lgs. n. 231 del 2002, affermando chele strutture private accreditate hanno diritto , in caso di ritardo nei pagamenti, di vedersi corrispondere dal soggetto pubblico gli interessi di mora, nella misura prevista dal medesimo d.lgs. n. 231 del 2002 (Cass. n.14349 del 2016; Cass. n. 20391 del 2016, Cass. n. 17665 del 2019, Cass. n. 7019 del 2020).
La Corte di Giustizia
Si impone, per completezza di indagine, un richiamo anche alle più rilevanti pronunce della Corte di Giustizia sul tema in esame.
La Corte di Giustizia ha avuto più occasioni di occuparsi d elle trasposizioni nelle normative nazionali delle due direttive finora dedicate a contrastare i ritardi nei pagamenti delle transazione commerciali (oltre alla direttiva n. Direttiva 2000/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 29 giugno 2000,trasposta nel d.lgs. n. 231 del 2002 la direttiva 2011/07/UE, recepita con il d.lgs. n. 192 del 2012.
La materia peraltro è costantemente all’attenzione degli organismi europei, tanto che è stata depositata una proposta di regolamento sul tema della lotta al ritardo nei pagamenti delle transazioni commerciali, COM (2023) 533).
La sentenza 1° dicembre 2022, in causa C-419 /2021
Con la sentenza 1 dicembre 2022, in causa C-419 /2021, su rinvio pregiudiziale della Polonia, si è statuito che la nozione di transazione commerciale non coincide con quella di contratto, ma allo scopo di ampliare la tutela dettata dalla direttiva, nel senso che è stato riconosciuto il diritto al pagamento dell’indennizzo forfettario previsto per il recupero crediti in relazione ad ogni singolo ritardo nel pagamento, in un caso di contratto a consegne ripartite.
La sentenza 18 novembre 2020, in causa C – 299/19: gli appalti pubblici
Con la sentenza 18 novembre 2020, in causa C – 299/19, su rinvio pregiudiziale dell’Italia, la Corte di giustizia ha ricondotto anche gli appalti pubblici nell’ambito delle transazioni commerciali, osservando che ritenere esclusa una parte così rilevante delle transazioni commerciali dall’ambito di applicazione della direttiva renderebbe gravemente frustrata la funzione dissuasiva dei ritardi: in particolare, si osserva che contrasterebbe con l’obiettivo della direttiva 2000/35, enunciato al suo considerando 22, secondo cui la stessa deve disciplinare tutte le transazioni commerciali, a prescindere dal fatto che esse siano effettuate tra imprese pubbliche o private o tra imprese e autorità pubbliche.
La sentenza n. 28 gennaio 2020, resa in causa C – 122 2018, Grande Chambre
Va ancora richiamata, sebbene in estrema sintesi, la sentenza n. 28 gennaio 2020, resa in causa C – 122 2018, Grande Chambre, contro l’Italia, con la quale l’Italia, all’esito di una procedura di infrazione che si è articolata in una complessa istruttoria in cui il Governo italiano ha strenuamente difeso i miglioramenti posti in essere per ridurre i ritardi nei pagamenti specie nei settori più critici, tra i quali spiccava in particolare quello sanitario,è stata condannata, proprio per il ritardo nei pagamenti nelle transazioni commerciali, e in particolare per i ritardi nel settore sanitario, in cui il tempo medio nel periodo in considerazione era stato di 67 giorni, quindi oltre i sessanta giorni consentiti.
Nel procedimento conclusosi con la predetta sentenza, la Commissione europea chiedeva alla Corte di giustizia di dichiarare che la Repubblica Italiana, avendo omesso e omettendo tuttora di assicurare che le sue pubbliche Amministrazioni evitino di oltrepassare i termini di 30 o 60 giorni di calendario per il pagamento dei loro debiti commerciali, è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza della direttiva 2011/7/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 febbraio 2011, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali (GU 2011, L48, pag. 1), e, in particolare, a quelli di cui all’articolo 4 di tale direttiva.
La sentenza osserva, al punto 12, che “i ritardi di pagamento costituiscono una violazione contrattuale resa finanziariamente attraente per i debitori nella maggior parte degli Stati membri dai bassi livelli dei tassi degli interessi di mora applicati o dalla loro assenza e/o dalla lentezza delle procedure di recupero.
È necessario – punto enfaticamente espressivo da valorizzare nella sentenza disaminata– un passaggio deciso verso una cultura dei pagamenti rapidi, in cui, tra l’altro, l’esclusione del diritto di applicare interessi di mora sia sempre considerata una clausola o prassi contrattuale gravemente iniqua, per invertire tale tendenza e per disincentivare i ritardi di pagamento.
Tale passaggio dovrebbe inoltre includere l’introduzione di disposizioni specifiche sui periodi di pagamento e sul risarcimento dei creditori per le spese sostenute e prevedere, tra l’altro, che l’esclusione del diritto al risarcimento dei costi di recupero sia presunta essere gravemente iniqua”.
Il ritardo “preoccupante” nei pagamenti dei servizi sanitari
Al punto 25 la sentenza della CGUE aggiunge: “per quanto riguarda i ritardi di pagamento, particolarmente preoccupante è la situazione dei servizi sanitari in gran parte degli Stati membri.
I sistemi di assistenza sanitaria, come parte fondamentale dell’infrastruttura sociale europea
I sistemi di assistenza sanitaria, come parte fondamentale dell’infrastruttura sociale europea, sono spesso costretti a conciliare le esigenze individuali con le disponibilità finanziarie.
Gli Stati membri dovrebbero quindi poter concedere agli enti pubblici che forniscono assistenza sanitaria una certa flessibilità nell’onorare i loro impegni. A tal fine, gli Stati membri dovrebbero essere autorizzati, a determinate condizioni, a prorogare il periodo legale di pagamento fino ad un massimo di sessanta giorni di calendario.
Gli Stati membri, tuttavia, dovrebbero adoperarsi affinché i pagamenti nel settore dell’assistenza sanitaria siano effettuati in accordo con i periodi legali di pagamento».
I flussi “certi” di entrate a favore delle PP.AA.
Prosegue poi, al punto 46, osservando che da una lettura congiunta dei considerando 3, 9 e 23 della direttiva 2011/7 risulta che le pubbliche amministrazioni, alle quali fa capo un volume considerevole di pagamenti alle imprese, godono di flussi di entrate più certi, prevedibili e continui rispetto alle imprese, possono ottenere finanziamenti a condizioni più interessanti rispetto a queste ultime e, per raggiungere i loro obiettivi, dipendono meno delle imprese dall’instaurazione di relazioni commerciali stabili.
I costi ingiustificati da ritardo nel pagamento
Orbene, per quanto riguarda dette imprese, i ritardi di pagamento da parte di tali amministrazioni determinano costi ingiustificati per queste ultime, aggravando i loro problemi di liquidità e rendendo più complessa la loro gestione finanziaria.
Tali ritardi di pagamento compromettono anche la loro competitività e redditività quando tali imprese debbano ricorrere ad un finanziamento esterno a causa di detti ritardi nei pagamenti.
L’interpretazione dell’art. 4 par. 3 e 4 della Direttiva 2011/7
Tali considerazioni, relative all’elevato volume di transazioni commerciali in cui le pubbliche amministrazioni sono debitrici di imprese, nonché ai costi e alle difficoltà generate per queste ultime da ritardi di pagamento da parte di tali amministrazioni, evidenziano che il legislatore dell’Unione ha inteso imporre agli Stati membri obblighi rafforzati per quanto riguarda le transazioni tra imprese e pubbliche amministrazioni e implicano che l’articolo 4, paragrafi 3 e 4, della direttiva 2011/7 sia interpretato nel senso che esso impone agli Stati membri di assicurare che dette amministrazioni effettuino, nel rispetto dei termini previsti da tali disposizioni, i pagamenti a titolo di corrispettivo delle transazioni commerciali con le imprese.
Da quanto detto –sottonineano le SS.UU.– la sentenza della CGUE conclude nel senso che non può essere condivisa l’interpretazione della Repubblica italiana secondo la quale l’articolo 4, paragrafi 3 e 4, della direttiva 2011/7 impone agli Stati membri unicamente l’obbligo di garantire che i termini legali e contrattuali di pagamento applicabili alle transazioni commerciali che coinvolgono pubbliche amministrazioni siano conformi a tali disposizioni e di prevedere, in caso di mancato rispetto di tali termini, il diritto, per un creditore che ha adempiuto agli obblighi contrattuali e di legge, alla corresponsione di interessi, ma non l’obbligo di assicurare il rispetto effettivo di tali termini da parte delle suddette pubbliche amministrazioni.
La condanna della Repubblica Italiana
Sulla base di queste e daltre considerazioni, la Repubblica Italiana, con la predetta sentenza, è stata ritenuta responsabile di mancato rispetto degli obblighi comunitari, non assicurando che le sue pubbliche Amministrazioni rispettino effettivamente i termini di pagamento stabiliti all’articolo 4, paragrafi 3 e 4, della direttiva 2011/7/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 febbraio 2011, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza di tali disposizioni.
La sollecitazione della CGUE alle pp.AA. a rispettare i termini per i pagamenti
La linea che emerge dalle più recenti pronunce della Corte di Giustizia è dunque quella della sollecitazione delle amministrazioni pubbliche al rispetto della regolarità dei pagamenti, con particolare attenzione alla materia sanitaria, per l’importanza del budget collegato e per il numero di imprese coinvolte.
Un recupero di efficienza nella riduzione dei tempi di pagamento recherà con sè un abbattimento dei costi connessi agli interessi per i ritardi, mentre la sottrazione dello Stato debitore alla sua responsabilità per la mancanza di un tempestivo adempimento delle transazioni commerciali lo esporrebbe al palpabile rischio di esporsi nuovamente ad una procedura di infrazione.
Venendo all’ulteriore aspetto, quello connesso alla organizzazione del SSN, centrale è la disamina dell’accreditamento.
L’accreditamento
La riflessione in argomento va maxime attenzionata: si tratta infatti – come spiega bene la Cassazione – di un mix pubblico/privato e, come tale, non potrebbe trovare sede più adatta per una approfondita disamina se non quella delle SS.UU. chiamate istituzionalmente a sceverare, appunto, i confini fra profili amministrativistici e civilistici.
Le tre “A”
Riguardo all’inquadramento dei rapporti tra la struttura privata accreditata e il Servizio sanitario nazionale, –osserva la Corte — l’attuale organizzazione del SSN, pur nella varietà delle configurazioni regionali, ruota attorno a quella sequenza che nella dottrina amministrativa è stata definita come il regime delle tre “A”: autorizzazione, accreditamento, accordo.
L’accreditamento quale provvedimento amministrativo
L’accreditamento, in particolare, è stato conformato come provvedimento amministrativo comunque riconducibile al genus delle concessioni di pubblico servizio.
Nell’ambito del rapporto di accreditamento, come riconducibile allo schema della concessione di pubblico servizio, accreditante e accreditato non si trovano su un piano di parità: il primo agisce jure imperii nei confronti dell’altro e permane, in capo all’accreditante, una posizione di potere, funzionalizzata alla verifica del corretto espletamento del servizio, che si esercita mediante la vigilanza sull’accreditato, dai cui esiti possono derivare anche la sospensione e la revoca dell’accreditamento.
La “prima e seconda fase” dell’accreditamento
I rapporti tra il Servizio sanitario nazionale e le strutture private accreditate si articolano in una prima fase, programmatica ed unilaterale, affidata alla Regione; in una seconda fase contrattuale con le singole strutture, affidata alla Regione ed alle A.U.S.L., in assenza della quale le Aziende e gli Enti del Servizio sanitario nazionale non sono tenuti a corrispondere la remunerazione per le prestazioni erogate.
La terza “A”
In particolare, la seconda di dette fasi – la terza A, ovvero la fase dell’accordo- (la terza “A”) trova la sua fonte normativa nell’art. 8 quinquies del d.lgs. n. 502 del 1992, che pone il rapporto di accreditamento su una base strettamente negoziale, sì che al di fuori del contratto la struttura accreditata non è obbligata ad erogare prestazioni agli assistiti del Servizio sanitario.
L’apposito negozio
Il contratto costituisce dunque il perimetro delle prestazioni erogabili.
Il rapporto tra la pubblica Amministrazione e il privato erogatore dei servizi non si arresta quindi al livello provvedimentale, ma percorre una sequenza gestionale in cui dall’esercizio dello jus imperii si passa all’esercizio dello jus privatorum, con la stipula di un apposito negozio con il soggetto cui è stata conferita la concessione per regolamentare, su un piano ora tendenzialmente paritario, la gestione della concessione stessa.
La sequenza delle cosiddette 3 A – autorizzazione, accreditamento, accordo – approda quindi alla stipulazione tra l’ente pubblico accreditante e il soggetto accreditato di quello che, se l’accreditato è un soggetto privato, si qualifica e assume la forma di un contratto.
I requisiti della struttura privata
Approfondendo l’analisi, la struttura privata, per erogare prestazioni agli utenti del SSN con corrispettivo a carico della amministrazione pubblica deve essere dotata di:
1) autorizzazione alla costruzione di nuove strutture sanitarie e\o all’esercizio di attività sanitarie, rilasciata dal Comune in base al rispetto di requisiti minimi per la tutela della sicurezza del paziente e degli operatori;
2) accreditamento istituzionale (distinto dalla certificazione professionale di eccellenza), che è un provvedimento amministrativo che abilita la struttura ad inserirsi nel SSN e pertanto è riconducibile (conformemente alla lettura giurisprudenziale del complessivo sistema) al genus della concessione di pubblico servizio (v. Cass. S.U. n. 31029 del 2002; Cass. S.U. n. 1602 del 2022) e può essere riconosciuto dalla Regione alle strutture autorizzate che ne abbiano fatto richiesta in base al duplice criterio della loro rispondenza ai requisiti di funzionalità rispetto agli indirizzi della programmazione regionale (art.8-quater d.lgs. n. 229/1999) e di qualità strutturale, tecnica, organizzativa e professionale, definiti secondo criteri ulteriori e diversi (come si esprimeva il Piano sanitario nazionale 1998-2000) rispetto a quelli richiesti per l’autorizzazione;
3) accordi contrattuali, a livello regionale e locale fra le organizzazioni di committenza e di produzione dei servizi , pubbliche o private accreditate, finalizzati alla specificazione di volumi e tipologia delle prestazioni ed a fissare l’ammontare complessivo della remunerazione.
Orientamenti giurisprudenziali in materia
Come già ricostruito dalla giurisprudenza, civilistica e amministrativa, l’accreditamento è stato conformato come provvedimento amministrativo comunque riconducibile al genus delle concessioni di pubblico servizio (nella giurisprudenza amministrativa cfr. Cons. Stato, sez. V, 11 maggio 2010 n. 2828; Cons. di Stato sez. III, 14 settembre 2015, n. 4271; Cons. di Stato II, 4 gennaio 2021, n. 82).
Le SS.UU. sull’accreditamento
Le Sezioni Unite pronunciandosi come giudice della giurisdizione, hanno più volte riconosciuto che i rapporti tra AUSL e le strutture sanitarie devono essere qualificati in termini di concessioni di pubblico servizio sia nel previgente regime convenzionale, di cui all’articolo 44 della legge n. 833/1978 sia nel vigente regime dell’accreditamento, nel quale il pagamento del corrispettivo dovuto per le prestazioni rese dai soggetti privati accreditati viene effettuato dalle aziende sanitarie locali nell’ambito di appositi accordi contrattuali: v. Cass. S.U. n. 30963 del 2022, Cass. n. 1602 del 2022, Cass. n. 23744 del 2020, Cass. n. 31029 del 2019, nonchè Cass. S.U. 20 giugno 2012 n. 10149 e la conforme S.U. ord. 3 febbraio 2014 n. 2291).
L’asimmetria dell’accreditante rispetto all’accreditato
Nell’ambito del rapporto di accreditamento, riconducibile come detto allo schema della concessione di pubblico servizio, accreditante e accreditato non si trovano su un piano di parità: il primo agisce jure imperii nei confronti dell’altro e permane, in capo all’accreditante, una una posizione di potere, funzionalizzata alla verifica del corretto espletamento del servizio, che si esercita mediante la vigilanza sull’accreditato, dai cui esiti possono derivare anche la sospensione e la revoca dell’accreditamento.
La giurisprudenza del CdS sulle fasi dell’accreditamento
Come puntualizzato in svariate occasioni dal Consiglio di Stato, nel sistema dell’accreditamento, in base alla vigente normativa, i rapporti tra il Servizio sanitario nazionale e le strutture private accreditate si articolano in una prima fase, programmatica ed unilaterale, affidata alla Regione; in una seconda fase contrattuale con le singole strutture, affidata alla Regione ed alle A.U.S.L., in assenza della quale le Aziende e gli Enti del Servizio sanitario nazionale non sono tenuti a corrispondere la remunerazione per le prestazioni erogate (art. 8 quater, comma 2, d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502). In particolare, la seconda di dette fasi – la terza A, ovvero la fase dell’accordo- trova la sua fonte normativa nell’art. 8 quinquies del d.lgs. n. 502 del 1992, che pone il rapporto di accreditamento su una base strettamente negoziale, sì che al di fuori del contratto la struttura accreditata non è obbligata ad erogare prestazioni agli assistiti del Servizio sanitario (Cons. St., sez. III, 3 ottobre 2011, n. 5427) .
Il contratto quale perimetro delle prestazioni erogabili
Il contratto costituisce dunque il perimetro delle prestazioni erogabili, nel senso che non sono rimborsabili le prestazioni fornite agli utenti fornite ma che non rientrano né nella tipologia riconosciuta né nel quantum finanziario stabilito (Consiglio di Stato, III, 12 luglio 2021 n. 5245).
Il rapporto tra la pubblica amministrazione e il privato erogatore dei servizi non si arresta quindi al livello provvedimentale, ma percorre una sequenza gestionale in cui dall’esercizio dello jus imperii si passa all’esercizio dello jus privatorum, con la stipula di un apposito negozio con il soggetto cui è stata conferita la concessione per regolamentare, su un piano ora tendenzialmente paritario, la gestione della concessione stessa.
La sequenza delle cosiddette 3 A – autorizzazione, accreditamento, accordo – approda quindi alla stipulazione tra l’ente pubblico accreditante e il soggetto accreditato di quello che, se l’accreditato è un soggetto privato, si qualifica e assume la forma di un contratto,nel quale, seppure tenendo conto della programmazione regionale e delle relative delibere della Giunta regionale, quelle che sono così diventate le parti di un negozio bilaterale determinano il contenuto degli obblighi che l’accreditato assume a favore degli utenti del Servizio sanitario nonché il conseguente corrispettivo che l’ente pubblico a sua volta si obbliga a corrispondergli.
L’oggetto del contratto
Il contratto ha per oggetto l’attività che in concreto quella struttura privata svolgerà per il Servizio sanitario, a beneficio dei fruitori del servizio sanitario pubblico, nonché la determinazione del credito che conseguentemente maturerà nei confronti dell’ente (sull’inquadramento del rapporto di accreditamento nell’ambito delle concessioni e sulla necessità della conclusione del contratto v. anche Cass. n. 17711 del 2014, Cass. n. 23657 del 2015, Cass. n. 17591 del 2018, Cass. n. 17665 2019, nonché sulla necessità della forma scritta di esso v. Cass. n. 20931 del 2016; v. anche, per
L’accreditamento quale condizione di legittimità degli accordi.
L’accreditamento non è dunque la fonte diretta del rapporto contrattuale, ma è condizione di legittimità degli accordi successivamente stipulati tra le parti, i quali hanno le caratteristiche del contratto a favore di terzi, ad esecuzione continuata e a prestazioni corrispettive.
Tale necessaria scansione nelle due fasi, provvedimentale (preceduta a sua volta dal rilascio della autorizzazione) e negoziale, e la necessità della fase contrattuale emergono chiaramente anche dalla più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato, in cui si individua il contratto come la fonte dei diritti e degli obblighi delle parti (ivi incluso l’obbligo per le strutture private accreditate di accettare la regressione tariffaria, ed è richiamata dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 113 del 2022.
Consiglio di Stato Terza Sezione sentenza n. 2064/2023
Una completa ricostruzione dei principi elaborati in materia dalla giurisprudenza amministrativa è contenuta nella sentenza del Consiglio di Stato, III, n. 2064 del 2023, che effettua una ricognizione dei presupposti individuati per l’erogazione da parte di privati di prestazioni sanitarie remunerate dal Servizio Pubblico, distinguendo la fase dell’accreditamento da quella degli accordi contrattuali, dai quali soltanto discende l’abilitazione in concreto a eseguire attività per conto del Servizio sanitario nazionale: segnala che l’accreditamento, per la cui concessione l’Amministrazione gode di un largo margine di discrezionalità in considerazione della valutazione della rispondenza e adeguatezza agli obiettivi della programmazione (Corte costituzionale 9 maggio 2022, n. 113), è un provvedimento di carattere non già autorizzativo, bensì abilitativo-concessorio (Consiglio di Stato, Sezione III, 27 febbraio 2018, n. 1206), che si colloca a metà strada tra laconcessione di servizio pubblico e l’abilitazione tecnica idoneativa (ex multis, Consiglio di Stato, sezione III, sentenze 18 ottobre 2021, n. 6954, 30 aprile 2020, n. 2773, e 3 febbraio 2020, n. 824). Indica l’accreditamento istituzionale come presupposto per la valida stipulazione degli accordi contrattuali ex art. 8 – quinquies , comma 2 – quinquies, del decreto legislativo n. 502/1992, che possono essere stipulati soltanto con i soggetti in possesso di tale requisito. Quanto al rapporto tra accreditamento e accordi contrattuali, la sentenza citata ricorda che la giurisprudenza amministrativa ha affermato che “-le prestazioni che il SSN eroga a carico dei contribuenti –ai sensi dell’art. 1, comma 3, del D. Lgs. n. 502/92– sono quelle previste nei Livelli Essenziali di Assistenza, sono uguali per tutti i cittadini su tutto il territorio nazionale e devono essere compatibili con le risorse finanziarie disponibili; -il SSN garantisce l’erogazione delle prestazioni dei LEA attraverso le sue strutture pubbliche. L’unico modo previsto dalla legge con cui un’impresa commerciale può essere ammessa ad erogare prestazioni sanitarie per conto ed a spese del SSN è il sistema dell’accreditamento istituzionale previsto dall’art. 8-quater del D. Lgs. n. 502/92; l’accreditamento istituzionale, quindi, è condizione essenziale per l’ammissione al ristoro delle prestazioni garantire dal SSN, ma non è condizione sufficiente, essendo necessaria la stipula di accordi contrattuali ex art. 8-quinquies D. Lgs. n. 502/92 tra l’erogatore privato e l’ASL nel cui territorio si trova la struttura; – detti accordi sono preordinati alla fissazione delle condizioni contrattuali, tra cui il tetto massimo di spesa, determinate dalla necessità del rispetto dei limiti finanziari disponibili; – l’art. 8 – quinquies, dunque, pone pertanto il rapporto di accreditamento su una base negoziale per la quale, al di fuori del contratto, la struttura accreditata non è obbligata ad erogare prestazioni agli assistiti del SSN, e, per converso, l’Amministrazione sanitaria non è tenuta a pagare la relativa remunerazione, dovendosi escludere che l’Amministrazione possa essere costretta ad acquistare prestazioni sanitarie in esubero rispetto alle esigenze programmate o in eccesso rispetto alle risorse disponibili.
In conclusione, in assenza di un accordo contrattuale l’attività sanitaria non può essere esercitata per conto ed a carico del SSN (ex multis, Cons. Stato, Sez. V, Sentenza n. 162/08; Cons. Stato, Sez. III, 17 ottobre 2011, n. 5550; cfr. anche Cass. Civ., Sez. Prima, 31/3/2021, n. 9003, nonché Cass. Civ., Sez. I, 11/9/2020, n. 18900, la quale richiama copiosa giurisprudenza amministrativa tra cui Cons. Stato, Sez. III, 8/1/2019, n. 184)” (Consiglio di Stato, Sezione III, 25 agosto 2022, n.7460).
Le farmacie
Per concludere: su un versante ricostruttivo (in parte) opposto, si colloca l’indagine delle SS.UU. in ordine al regime creditorio delle farmacie.
L’espressione di posizioni non del tutto sintoniche rispetto ai fin qui richiamati principi – afferma la S. C..– era stata espressa, prima della sentenza a Sezioni unite n. 26496 del 2020 , solo riguardo allo specifico – e distinto – settore delle farmacie.
La diversa fonte del rapporto fra le farmacie e il SSN
Alcune sentenze (v. in particolare Cass. n. 5042 del 2017, Cass. n. 5796 del 2017, Cass. n. 9991 del 2019) avevano posto in rilievo che la fonte del rapporto, tra le farmacie e il SSN, fosse da rinvenire non in un contratto, ma in una fonte normativa secondaria, un regolamento, essendo stato reso esecutivo l’accordo collettivo nazionale per la disciplina dei rapporti con le farmacie pubbliche e private con decreto del Presidente della Repubblica.
Dalla diversità quanto alla fonte del rapporto , Cass. n. 5042 del 2017 e Cass. n. 5796 del 2017, non massimata, deducevano che i l rapporto che si instaura fra il Servizio sanitario nazionale e la farmacia in occasione dell’erogazione dell’assistenza farmaceutica non ha natura di transazione commerciale perché trattasi di rapporto la cui disciplina non è affidata al contratto, ma alla legge ed al regolamento che rende esecutivo l’accordo collettivo nazionale stipulato in base ed in conformità alla legge (art. 8, comma 2, d. Igs. n. 502 del 1992), e come tale il rapporto rimane sottratto alla autonomia privata nell’intendimento del legislatore in forza della natura del fenomeno, che è l’erogazione dell’assistenza farmaceutica per conto dell’Azienda Unità sanitaria locale.
Le sentenze citate concludevano nel senso dell’inapplicabilità del saggio di interessi previsto dal d. Igs. n. 231 del 2002 alle farmacie, stante l’estraneità dell’erogazione dell’assistenza farmaceutica per conto delle Asl al paradigma della transazione commerciale e la riconducibilità del rapporto alla fonte legale ed amministrativa, ossia all’art. 8, comma 2, d. Igs. 30 dicembre 1992, n. 502 ed al relativo regolamento.
Le stesse sentenze ponevano in rilievo, peraltro, la differenza tra l’ipotesi delle attività svolta dalle farmacie di erogazione di assistenza farmaceutica e le fattispecie considerate da Cass. 14 luglio 2016, n. 14349 e Cass. 11 ottobre 2016, n. 20391, nelle quali è stata ritenuta in astratto applicabile, salvo le circostanze del caso, al rapporto fra la struttura sanitaria accreditata nell’ambito del servizio sanitario nazionale ed il soggetto pubblico la disciplina di cui al d. Igs. n. 231 del 2002, rilevando che in quei casi la fonte del rapporto era l’accordo contrattuale, e dunque che fosse configurabile la transazione commerciale.
Le farmacie quale “segmento” del SSN
La successiva sentenza n. 9991 del 2019, sempre relativa alle farmacie, evidenziava piuttosto l’eterogeneità del profilo soggettivo, ritenendo che le farmacie, per l’attività di erogazione di assistenza farmaceutica in favore degli assistiti del SSN, non potessero rientrare nella nozione pur lata di imprenditore presa in considerazione dal d.lgs. n. 231 del 2002 perchè erano piuttosto da considerare un segmento del Servizio sanitario nazionale, per la prevalenza della funzione pubblicistica svolta.
La sentenza delle Sezioni Unite n. 26496/2020: lo spartiacque della somministrazione dei farmaci di fascia “A” (“salvavita”)
Quest’ultimo profilo è particolarmente valorizzato dalla successiva pronuncia a Sezioni unite, n. 26496 del 2020, che, previa un’accurata disamina della giurisprudenza precedente, nell’affermare la peculiarità funzionale delle farmacie,che le inserisce come segmento di diretta articolazione del Servizio sanitario nazionale, e giustifica la sottrazione dell’attività di erogazione dei farmaci svolta alla nozione di transazione commerciale, ha a sua volta circoscritto questa peculiarità, che ne fa prevalere il profilo pubblicistico su quello imprenditoriale, all’attività salvavita svolta dalle farmacie, e cioè alla sola somministrazione dei farmaci essenziali, di fascia A , per i quali l’assistito è dispensato dal versamento del corrispettivo, essendo titolare del diritto a riceverli quale concretizzazione del fondamentale diritto alla salute ed il soggetto che eroga I farmaci si inserisce in toto nell’espletamento del Servizio sanitario nazionale e si colloca in rapporto stretto e diretto con il pubblico interesse sotteso a tale servizio, spogliando, in parte, l’attività del farmacista dalla sua natura imprenditoriale.
La predetta sentenza segnala, infine, che l’inserimento in parte qua della farmacia nel servizio sanitario nazionale quale suo segmento non trova ostacolo nei principi eurounitari, in quanto la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha sempre lasciato uno spazio alla discrezionalità degli Stati membri in tema di farmacie sia per l’esigenza di tutela della salute pubblica sia per i peculiari effetti, con ricadute sulla salute pubblica, del tipo di merce rappresentato dal farmaco, così da non ravvisare in genere violazione delle norme TFUE di riferimento da parte della disciplina interna dei singoli stati.