Limitazioni ermeneutiche alla rivalsa della struttura nei confronti del medico

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Il nuovo orientamento giurisprudenziale può davvero dirsi compatibile con i presupposti della rivalsa individuati dal legislatore all’art. 9 della legge n. 24 del 2017?!

 

  

 a cura dell’avv. Edoardo Errico e dell’avv. Chiara Galderisi

 

Premessa

 

I Giudici di legittimità sembrano decisi a confermare l’indirizzo giurisprudenziale di nuovo conio in virtù del quale, in sede di rivalsa, la struttura sanitaria non può recuperare l’intero esborso, salvo dimostrare un’eccezionale, inescusabilmente grave ed imprevedibile devianza dei sanitari.

 

Il precedente in materia: Cass. civ. Sez. III, Sent., (ud. 02-07-2019) 11-11-2019, n. 28987.

 

In particolare, poco più di due anni fa, la S.C. ha affermato che, la limitazione al 50% della rivalsa della struttura nei confronti del medico (salvo eccezioni di difficile riscontro, come “…l’aver eseguito un intervento di cardiochirurgia fuori la sala operatoria”), sarebbe desumibile dal confronto testuale tra l’art. 1228 c.c. e l’art. 2049 c.c.

Se quest’ultimo prevede una responsabilità indiretta e oggettiva per l’illecito altrui, il primo descriverebbe, piuttosto, un’ipotesi di responsabilità diretta per fatto proprio dell’ente impersonale, ancorché riconducibile al comportamento dell’ausiliario, il che, ad avviso della S.C., varrebbe ad escludere la natura oggettiva della responsabilità della struttura.

Una sorta di immedesimazione organica che consente di imputare all’ente lo stato soggettivo della persona fisica.

La S.C. sostiene quindi che, alla luce di siffatte premesse, l’art. 2055 c.c. potrebbe trovare applicazione esclusivamente con riferimento all’art. 2049 c.c., consentendo anche la ripetizione integrale di quanto versato a titolo risarcitorio al terzo leso.

Lo stesso principio non sarebbe applicabile all’art. 1228 c.c..

In quest’ultimo caso, infatti, il giudizio di rivalsa non integrerebbe gli estremi di un’ordinaria azione da inadempimento del contratto che lega la struttura al medico.

Conseguentemente, i criteri generali della quantificazione non potrebbero essere ricondotti, come invece avviene in tutti le altre ipotesi, al dettato degli artt. 1298 e 2055 c.c., in base ai quali solo il condebitore in solido che adempia l’obbligazione vanta il diritto di rivalsa anche per l’intero, ma piuttosto porterebbero a validare il  principio in virtù del quale “In tema di danni da malpractice medica nel regime anteriore alla l. 24 del 2017, nell’ipotesi di colpa esclusiva del medico la responsabilità dev’essere paritariamente ripartita tra struttura e sanitario, nei conseguenti rapporti tra gli stessi, eccetto che negli eccezionali casi d’inescusabilmente grave, del tutto imprevedibile e oggettivamente improbabile devianza dal programma condiviso di tutela della salute cui la struttura risulti essere obbligata”.

La legge Gelli?! Secondo la Corte, non farebbe che confermare tale l’assunto giacché: “la responsabilità della struttura sanitaria destinata a scaturire “ex se” da un’attività che impone – dovendo conformarsi a criteri di organizzazione e gestione certamente distinti da quelli che governano la condotta del singolo medico – l’adozione di uno stringente “standard” operativo, vada a modellarsi secondo criteri di natura oggettiva, a differenza di quanto invece predicabile con riferimento all’attività del singolo sanitario, ai sensi dell’espressa disposizione di cui alla L. n. 24 del 2017, art. 7, comma 1 ove si discorre di responsabilità scaturente “dalle condotte dolose o colpose di quest’ultimo“, in assenza delle quali (e salvo quanto sopra evidenziato), nessun addebito potrà essere legittimamente mosso alla struttura, a conferma della bontà della ricostruzione teorica che la vede responsabile “per fatto proprio” dell’agire dei suoi dipendenti.

 

Analisi della disciplina normativa generale.

 

Tuttavia, se si segue una interpretazione letterale e sistematica delle norme fin qui analizzate, conformemente a quanto è richiesto dall’art. 12 delle preleggi, sembra emergere tutt’altro.

Innanzitutto, non può farsi a meno di ricordare come l’art. 1228 c.c. non nasca affatto per disciplinare la peculiare responsabilità degli enti, essendo indifferentemente applicabile sia alle persone fisiche che a quelle giuridiche.

La norma, per la sua collocazione, è volta più semplicemente a tutelare le ragioni del creditore nei confronti di un debitore a lui legato contrattualmente che, ex art. 1218 c.c., risponderà per fatto proprio, mentre, ex art.  1228 c.c., risponderà per il fatto degli ausiliari di cui si sia avvalso in ragione della complessità della prestazione o per più generiche esigenze organizzative.

Né si può pensare di attribuire all’art. 1228 c.c. un significato diverso a seconda che il debitore sia una persona fisica piuttosto che una persona giuridica.

L’unica reale differenza con l’art. 2049 c.c. consiste, allora, nella fonte del danno: il contratto piuttosto che la violazione del neminem laedere. Da qui la diversa collocazione delle due disposizioni, entrambe volte a disciplinare i rapporti tra il danneggiato e la schiera di soggetti, più o meno ampia, sui quali, in un’ottica solidaristica, si ritiene opportuno riallocare, nell’immediato, il costo del danno.

Queste stesse norme, però, ancora non dicono nulla in merito ai rapporti interni e sulle condizioni per il regresso o per la rivalsa.

Ai rapporti interni tra debitore e suoi ausiliari, e quindi anche tra struttura e medico, si dedicano proprio le norme bistrattate dalla Cassazione.

Infatti, l’interpretazione proposta dalla S.C. dimentica del tutto che si tratta, esattamente, di un problema di inadempimento delle obbligazioni contrattualmente assunte dal medico nei confronti della struttura. Inadempimento che, peraltro, non è necessariamente posto in essere da un dipendente, magari del settore pubblico, il quale effettivamente cura i pazienti che gli vengono sottoposti dalla struttura, ma anche da liberi professionisti, che si avvalgono degli strumenti messi a disposizione dalle case di cura per eseguire prestazioni sanitarie in favore di propri, personali, pazienti.

E se il concetto di immedesimazione organica può – forse – avere una sua logica nel primo caso, non si vede come il luminare, che opera in diverse strutture, fattura direttamente al cliente ed utilizza addirittura una propria equipe, possa essere considerato un’emanazione della clinica che, di volta in volta, lo ospita percependo unicamente la retta di degenza.

L’assunto di partenza da cui muovono i Giudici di legittimità, in altri termini, non trova alcuna conferma nella pratica.

Si vorrebbero, infatti, inquadrare i rapporti tra medico e struttura in un’unica categoria, tentando una generalizzazione, invero, irrealistica.

Del resto, il Codice civile, nell’impossibilità di uniformare tutti i casi in cui un debitore si avvale di ausiliari dal cui operato derivi un pregiudizio, ha predisposto un sistema di tutela che, in prima battuta, agevola il creditore nella identificazione dell’interlocutore più solvibile, salvo poi riequilibrare i rapporti interni in sede di regresso, a seconda delle effettive quote di responsabilità di ciascun soggetto coinvolto.

Così, l’art. 1298 c.c. disciplina i “rapporti interni tra debitori solidali” prevedendo la ripartizione delle responsabilità in parti uguali, salvo che l’obbligazione non sia stata contratta nell’interesse esclusivo di alcuno di essi. L’art. 1299 c.c., inoltre, prevede che il regresso non possa a sua volta beneficiare del regime solidaristico, che viene meno una volta soddisfatto il creditore.

Chi ha eseguito il pagamento, potrà recuperare da ciascun condebitore solo la quota a quest’ultimo spettante.

La differenza con l’art. 2055 c.c. è nella fonte dell’obbligazione solidale.

In base all’art. 2055 c.c., nei casi in cui la solidarietà all’esterno non nasca da un rapporto contrattuale, ma da un concorso di cause indipendenti, il regresso può essere azionato nella misura determinata dalla “gravità” delle rispettive colpe e dall’ “entità” delle conseguenze, non essendoci in questo caso un contratto cui fare riferimento per individuare le prestazioni esigibili da ciascuno.

 

Analisi della legge 24/2017.

 

Arriviamo, così, alla legge n. 24 del 2017, che mira, effettivamente, ad introdurre un regime peculiare allorquando il danno è cagionato al paziente (che non è un debitore “comune”), nell’espletamento di prestazioni sanitarie dalle più svariate articolazioni.

Il legislatore ha, allora, deciso di uniformare il regime giuridico per tutte le tipologie di prestatori sanitari, siano essi pubblici dipendenti o liberi professionisti, pur tenendo conto, implicitamente, della differenza ontologica.

Pertanto, con una sorta di mini-codice dedicato alla specifica materia, ripropone la distinzione tra rapporti esterni e rapporti interni descritta nel Codice civile.

L’art. 7, infatti, è dedicato inequivocabilmente a disciplinare i rapporti tra erogatori delle prestazioni sanitarie (strutture, medici, altri operatori) e paziente, cristallizzando la regola in virtù della quale la struttura può essere chiamata a rispondere tanto per fatto proprio ex art. 1218 c.c. – la c.d. colpa da organizzazione – quanto per fatto dei singoli esercenti la professione sanitaria ex art. 1228 c.c.

L’art. 9, invece, si occupa della rivalsa, delineando diversi limiti procedurali e sostanziali. Quanto a questi ultimi, è ivi stabilito che “l’azione di rivalsa nei confronti dell’esercente la professione sanitaria può essere esercitata solo in caso di dolo o colpa grave”, estendendo la limitazione tradizionalmente prevista dal CCNL per i soli medici dipendenti, indistintamente a tutti gli esercenti la professione sanitaria.

Estensione, peraltro, sacrosanta per quanto riguarda i medici legati alla struttura da contratto di collaborazione libero-professionale, che di fatto sono parte integrante dell’organizzazione tanto quanto i lavoratori subordinati, ma meno comprensibile per quel che concerne, invece, i sanitari che utilizzano la struttura per trattare solo propri pazienti.

Non è, tuttavia, questa la sede per discutere il contenuto della legge n. 24/’17: al contrario, si intende criticarne l’applicazione irragionevolmente estensiva, ben oltre le intenzioni del Legislatore ed in palese contraddizione con il dettato codicistico.

Infatti, la ratio sottesa alla importante limitazione del regresso ai soli casi di dolo e colpa grave non può che essere, appunto, quella di attribuire rilevanza al rischio di impresa, dando per assunto che, nell’ambito della gestione imprenditoriale dell’attività sanitaria, sia connaturata la possibilità di errore da parte degli operatori, le cui conseguenze restano pertanto a carico dell’impresa stessa (o dell’azienda pubblica).

Per tale ragione, quindi, resta fuori da tale “scudo” solo l’ipotesi del danno causato con colpa grave, non a caso parificata al dolo, giacché esulante dalla gestione “normale” ed evidentemente imputabile al solo autore del comportamento colposo.

 

Arbitrarietà dell’indirizzo ermeneutico e delle relative implicazioni  

 

Non si vede, quindi, in base a quale criterio il regresso, già indiscriminatamente circoscritto dalla legge all’ipotesi della colpa grave, dovrebbe essere limitato al 50%, con un’ulteriore, macroscopica, compressione del diritto attribuito ex artt. 1298 e 2055 c.c. alle strutture sanitarie.

Nessuna delle norme analizzate consente di attribuire all’ente civilmente responsabile, nell’ambito del rapporto interno con l’autore materiale dell’illecito, una quota di “default” esclusa dalla rivalsa/regresso (ovviamente salvi, per i sinistri successivi al 31.3.2017, gli effetti della richiamata limitazione a dolo e colpa grave).

Anzi, secondo logica e secondo diritto, il soggetto che paga uno stipendio o un compenso per ottenere una prestazione professionale, laddove venga esposto ad un’obbligazione risarcitoria in conseguenza di un inadempimento del collaboratore, dovrebbe avere ampio diritto di regresso integrale, se non addirittura la possibilità di ottenere un ulteriore risarcimento per il danno di immagine, i costi di gestione del sinistro, l’aumento del premio assicurativo e così via.

Nessuna norma, soprattutto, circoscrive la rivalsa integrale “agli eccezionali casi d’inescusabilmente grave, del tutto imprevedibile e oggettivamente improbabile devianza dal programma condiviso di tutela della salute cui la struttura risulti essere obbligata”.

Del resto, la stessa sentenza che per prima ha individuato la responsabilità autonoma della struttura (Cass. Sezioni Unite 577/2008) evidenziando la necessità di non appiattirla unicamente sull’art. 1228 c.c., ha sottolineato la possibilità di indagare profili autonomi di responsabilità per colpa di organizzazione, ma non ha affermato che, laddove all’esito del giudizio non ne emergano, la Clinica sia tenuta ciò nonostante a sopportare, anche nei rapporti interni con il proprio ausiliare, l’intero o anche solo parziale costo di un danno che non le è, in alcuna misura, ascrivibile.

Nel rapporto contrattuale sinallagmatico interno tra medico e struttura, in relazione al quale la seconda può ben esigere l’esatto adempimento delle prestazioni per cui versa un compenso, non si vede perché la stessa dovrebbe tenere a proprio carico, oltre alla responsabilità diretta per “colpa di organizzazione”, anche una quota di quella personalmente ed esclusivamente ascrivibile al medico.

Una società commerciale risponde del danno arrecato da un proprio carrello elevatore, ma ha certo diritto di rivalsa integrale nei confronti dell’operatore materialmente alla guida, a meno che non vengano in rilievo elementi di colpa riconducibili alla società stessa (inefficienza del mezzo, mancata predisposizione di misure precauzionali, turni di lavoro troppo gravosi…).

Non si comprende perché mai, nell’ambito della colpa medica, si tenda invece ad ascrivere alla struttura colpe che non ha anche nel contesto del regresso, del tutto diverso da quello che regola il rapporto obbligatorio con il danneggiato.

L’ottica da cui muove la Corte di legittimità è quella di conservare tendenzialmente l’obbligazione solidale in capo alla struttura per il sol fatto di essersi avvalsa di esercenti la professione sanitaria, pur senza individuare profili di colpa di organizzazione alla stessa direttamente riferibili.

La lettura suggerita dell’art. 1228 c.c. cela il rischio di trasformare quella della struttura in una responsabilità “da posizione” oggettiva, a fronte di un impeccabile gestione sanitaria, per il sol fatto che un medico al suo interno abbia sbagliato.

In altri termini, se il titolo in virtù del quale la Clinica è chiamata a rispondere è autonomo, deve essere lasciata impregiudicata tanto la possibilità che la stessa risponda mentre il medico è scusato, quanto quella opposta in virtù della quale il medico è responsabile e la Clinica, tenuta in un primo momento a sopportarne le conseguenze, possa poi rivalersi integralmente perché non sussistono profili di responsabilità ad essa direttamente imputabili.

Tale ragionamento è alla base della sentenza 15663/2020 del Tribunale di Roma, che ha condannato la clinica in solido con il medico nei rapporti con il paziente, ma ne ha poi riconosciuto il diritto di regresso integrale, ravvisando profili di colpa esclusivamente ascrivibili al medico.

Né sono diverse le conclusioni cui si arriva per quel che concerne gli eventi regolamentati dalla novella legislativa.

Se, infatti, la limitazione alla colpa grave è prevista da una norma speciale (appunto l’art. 9 della L. n. 24/17), quella inerente il caso “eccezionale” è una mera elucubrazione giurisprudenziale, priva, come abbiamo visto, di qualsiasi aggancio normativo ed ancor più illegittima ove di consideri la vicinanza temporale tra un intervento legislativo di ampia portata, come la Gelli-Bianco, e la sentenza “di San Martino”.

Non si può, infatti, ipotizzare una vacatio legis da colmare: se il Legislatore, regolamentando finalmente il settore (dopo l’intervento parziale della “Balduzzi”) avesse inteso limitare la rivalsa integrale ai soli casi assolutamente straordinari, lo avrebbe previsto espressamente quando ha disciplinato l’istituto.

Se ciò non è avvenuto, non si comprende in base a quale principio giuridico la Cassazione abbia applicato i principi che fondano la responsabilità oggettiva del datore di lavoro o del committente (in senso ampio) per il fatto del dipendente o dell’ausiliario, al rapporto interno tra tali soggetti.

Le uniche implicazioni che possono desumersi dal dato normativo sono di tipo probatorio.

Infatti, una sentenza dello stesso anno di quella fin qui analizzata (Cass. del 2019 n. 24167) ha stabilito che: “laddove la struttura sanitaria, correttamente evocata in giudizio dal paziente che, instaurando un rapporto contrattuale, si è sottoposto ad un intervento chirurgico all’interno della struttura stessa, sostenga che l’esclusiva responsabilità dell’accaduto non è imputabile a sue mancanze tecnico-organizzative ma esclusivamente alla imperizia del chirurgo che ha eseguito l’operazione, agendo in garanzia impropria e chiedendo di essere tenuta indenne di quanto eventualmente fosse condannata a pagare nei confronti della danneggiata, ed in regresso nei confronti del chirurgo, affinché, nei rapporti interni si accerti l’esclusiva responsabilità di questi nella causazione del danno, è sul soggetto che agisce in regresso a fronte di una responsabilità solidale che grava l’onere di provare l’esclusiva responsabilità dell’altro soggetto. Non rientra invece nell’onere probatorio del chiamato l’onere di individuare precise cause di responsabilità della clinica in virtù delle quali l’azione di regresso non potesse essere, in tutto o in parte, accolta”.

 

 

Conclusioni.

 

Il tema merita quanto mai attenzione all’indomani della sentenza della Corte di Cassazione, III sez. civile, n. 12965 del 2022, rel. Paolo Porreca, che si esprime in termini ancora più drastici del suo precedente.

I casi che prima erano “eccezionali” vengono riconosciuti espressamente di “improbabile” verificazione, risultando sostanzialmente “impossibile” comprimere del tutto la responsabilità della struttura, in pieno contrasto con il dato normativo, codicistico ed aggiornato dalla legge speciale.

E non sarà inutile ricordare che spetta al legislatore bilanciare i contrapposti interessi, anche in termini di “tenuta” del sistema: la legge 24, per quanto abbiamo potuto direttamente constatare, appariva già decisamente penalizzante per imprese e aziende pubbliche nel limitare la rivalsa alla colpa grave e del tutto inidonea a ripristinare un corretto dialogo con il mercato assicurativo.

Ci si chiede, allora, se la S.C. abbia considerato i disastrosi riflessi di siffatta ulteriore, e giuridicamente forzata, iper-responsabilizzazione delle strutture, che rischia di incidere pesantemente sull’efficienza di un fondamentale servizio di pubblico interesse.