Il diritto amministrativo subisce l’influenza Comunitaria secondo plurimi meccanismi.
La vera cogenza del sistema così delineato si apprezza a pieno, tuttavia, sol se si considerano le conseguenze che genera il mancato rispetto degli oneri incombenti su Giudici e Legislatore.
La responsabilità diretta dello Stato per violazione diritto UE viene affermata in virtù di un’applicazione analogica art. 340 TFUE sulla responsabilità delle istituzioni comunitarie, più di recente declinato in legge 2011 n. 183 che all’art. 4 co 43.
Quanto alla responsabilità dei Giudici per mancato rispetto della primazia del diritto U.E., la legge 1988 n. 117 come riformata dalla legge del 2015 n. 18, stabilisce che l’azione risarcitoria nei confronti dello Stato spetta, altresì, nei casi di “violazione manifesta della legge nonché del diritto dell’Unione europea” da parte delle Autorità Giudiziarie.
Sembra, invece, sfumato il tentativo della Corte di Cassazione di introdurre un rimedio ulteriore rispetto ai casi di diniego di giustizia nel rispetto dell’Unione Europea, tramite la rivisitazione del concetto di “motivi di giurisdizione” conoscibili dai Giudici di legittimità.
Peraltro, ancorché non sia stata assunta una posizione ufficiale circa il rapporto integrato o autonomo tra ordinamenti, la tendenza delle Magistrature Superiori è quella di di ritenere il diritto U.E. una valida fonte di attribuzione del potere amministrativo, almeno quando direttamente efficace.
L’Ad. Plen. del 9 novembre 2021, n. 18, addirittura, estende il potere di disapplicare la norma interna in contrasto con il diritto U.E., direttamente efficace, alla stessa P.A.., nonostante ciò comporti l’autorizzazione ad esercitare un’attività interpretativa tipicamente giudiziale. Una statuizione che, inevitabilmente, mette in discussione il concetto di “stabilità” dei provvedimenti amministrativi rimasti inoppugnati o giudicati legittimi, ancorché in contrasto con diritto U.E..
Scheda sintetica a cura dell’avv. Chiara Galderisi
Redazione di IURA NOVIT CURIA ©
Il diritto amministrativo subisce l’influenza Comunitaria secondo plurimi meccanismi. Per offrire uno sguardo di insieme quanto più possibile esaustivo, seppur sintetico, può essere utile, da un lato, evidenziare il complesso sistema normativo che trae origine dalla rinuncia alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicura la pace tra le Nazioni professata ex art. 11 Cost, al contempo approfondendo l’impatto che la “primazia” dell’Unione Europea genera non solo sulla magistratura, ma anche, in modo peculiare, sulle Pubbliche Amministrazioni.
Ebbene, sotto il primo profilo, non può farsi a meno di osservare come, l’elaborazione dei Trattati recepiti con legge interna di rango ordinario (cfr. legge di ratifica del Trattato di Lisbona n. 130/2008), abbia consentito di individuare gli specifici ambiti di competenza legislativa unionale in base al principio di attribuzione.
Un diritto che sarebbe dovuto essere frammentario, settoriale, e che tuttavia è divenuto sempre più pervasivo, giungendo addirittura all’elaborazione di una Carta dei diritti fondamentali dell’U.E. avente lo stesso rango giuridico dei Trattati ex art. 6 par. I del T.U.E..
A ciò si aggiunga il peculiare ruolo attribuito dall’ordinamento U.E. alla Corte di Giustizia nella definizione della portata delle norme sulle quali è interpellata ex art. 267 T.F.U.E..
E’ proprio alla C.G.U.E., del resto, che si deve l’affermazione del primato del diritto dell’U.E. negli ambiti di sua competenza (sentenza Van Gend en Loos contro Nederlandse Administratie der Belastingen – causa 26/62). Affermazione che ha messo in crisi il sistema delle fonti interno e che, tutt’oggi, continua ad essere oggetto di approfondimento.
In particolare, l’art 288 T.F.U.E. individua le fonti derivate del diritto U.E. e stabilisce che per esercitare le competenze dell’Unione, le istituzioni adottano regolamenti, direttive, decisioni, dal carattere vincolante, nonché raccomandazioni e pareri, con scopo orientativo.
I regolamenti e le decisioni, ciascuno con le sue caratteristiche, trovano applicazione immediata.
Le direttive, invece, vincolano lo Stato membro cui sono rivolte per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi. Sono fatti salvi i casi in cui la direttiva raggiunga un livello di dettaglio tale da non necessitare di intervento alcuno (in questo la pervasività cui si accennava poiché non sono positivizzati i caratteri della direttiva auto-esecutiva).
Ebbene, è proprio nell’art 288 T.F.U.E. citato che si annida, probabilmente, il principale riparto di responsabilità tra magistratura e legislatore nazionale nel dare attuazione al diritto dell’unione Europea.
Infatti, il rispetto delle fonti aventi efficacia diretta va garantito, innanzitutto, dai Giudici tramite un controllo diffuso. E’ ormai pacifico e condiviso dalla Corte Costituzionale (si parla in proposito di apertura alla concezione c.d. monista), il dovere dell’A.G. di disapplicare la norma interna in contrasto, non superabile in via interpretativa, con una norma europea immediatamente applicabile.
Va, però, ricordato come più di recente, la Consulta (Corte Costituzionale, sentenza del 14 dicembre 2017 n. 269) sembra essersi riappropriata del proprio monopolio allorquando venga in rilievo la possibile violazione, da parte di una norma nazionale, di diritti reputati fondamentali tanto per la Costituzione quanto per la Carta di Nizza. In questo caso, il potere di disapplicazione subisce una battuta d’arresto, divenendo prioritario sollevare questione di legittimità costituzionale o, piuttosto, esercitare il rinvio pregiudiziale alla C.G.U.E. (con tutto ciò che ne deriva nei casi di conflitto tra le statuizioni dei due plessi giudiziari).
E’, invece, tendenzialmente pieno ed accentrato il controllo della Corte Costituzionale sulle norme interne in conflitto con le fonti derivate di diritto U.E. che non siano immediatamente efficaci, quali appunto le direttive sopra citate. La loro attuazione, infatti, necessita di un passaggio intermedio volto a specificarne il contenuto. Obiettivo che si è tentato di perseguire, dapprima, con legge comunitaria (la c.d. legge La Pergola) e, da ultimo con legge n. 234 del 2012, la quale assicura il costante adeguamento alle direttive dell’U.E. così come alle eventuali procedure d’infrazione o alle sentenze della Corte di Giustizia, in virtù del principio di leale collaborazione, matrice dei più importanti progressi in materia di tecniche legislative (si pensi anche alla valorizzazione che del principio è stata data nell’ambito dei rapporti tra Stato e Regioni dalla Consulta interpellata sulla legittimità della Riforma Madia).
In ogni caso, le direttive U.E. impediscono al Legislatore nazionale di adottare disposizioni con esse contrastanti ed obbligano i giudici ad adottare interpretazioni conformi della disciplina interna.
La vera cogenza del sistema così delineato si apprezza a pieno, tuttavia, sol se si considerano le conseguenze che genera il mancato rispetto degli oneri incombenti su Giudici e Legislatore.
In particolare, il mancato recepimento delle direttive entro il termine stabilito, oltre ad esporre lo Stato inadempiente alla procedura d’infrazione da parte della Commissione Europea, fa sorgere, in capo ai singoli pregiudicati dall’impossibilità di far valere i loro diritti nel Paese di appartenenza, la facoltà di esperire azione risarcitoria.
La responsabilità diretta dello Stato per violazione diritto UE viene affermata in virtù di un’applicazione analogica art. 340 TFUE sulla responsabilità delle istituzioni comunitarie, più di recente declinato in legge 2011 n. 183 che, all’art. 4 co 43, dispone: “La prescrizione del diritto al risarcimento del danno derivante da mancato recepimento nell’ordinamento dello Stato di direttive o altri provvedimenti obbligatori comunitari soggiace, in ogni caso, alla disciplina di cui all’articolo 2947 del codice civile e decorre dalla data in cui il fatto, dal quale sarebbero derivati i diritti se la direttiva fosse stata tempestivamente recepita, si è effettivamente verificato”, generando tra l’altro non poca confusione sulla natura contrattuale o, piuttosto, aquiliana di siffatta responsabilità.
La legge 1988 n. 117 come riformata dalla legge del 2015 n. 18, inoltre, pur preservando il proprium dell’attività giudiziale ossia l’interpretazione, stabilisce che l’azione risarcitoria nei confronti dello Stato (salvo poi diritto di rivalsa) spetta, altresì, nei casi di “violazione manifesta della legge nonché del diritto dell’Unione europea” da parte delle Autorità Giudiziarie.
Sembra, invece, sfumato il tentativo della Corte di Cassazione di introdurre un rimedio ulteriore rispetto ai casi di diniego di giustizia nel rispetto dell’Unione Europea, tramite la rivisitazione del concetto di “motivi di giurisdizione” conoscibili dai Giudici di legittimità.
Se, infatti, la risposta della Corte costituzionale con sentenza n. 6 del 2018 non era stata considerata ancora esaustiva, la C.G.U.E. è intervenuta a dirimere ogni dubbio al riguardo, dando nuova linfa ai rimedi tradizionali, già in vigore nell’ordinamento italiano.
Quid iuris per le PP.AA.?
Ancorché non sia stata assunta una posizione ufficiale circa il rapporto integrato o autonomo tra ordinamenti, la tendenza delle Magistrature Superiori è quella di di ritenere il diritto U.E. una valida fonte di attribuzione del potere amministrativo, almeno quando direttamente efficace.
Pertanto, l’atto amministrativo in contrasto, è passibile di impugnazione per vizio di legittimità (ovvero, secondo alcuni, addirittura nullo per carenza di potere). Lo stesso vale nei casi in cui l’efficacia del diritto dell’U.E. sia ostacolata da una norma interna in conflitto. L’atto amministrativo che vi si conformi va censurato negli ordinari termini decadenziali imposti ex art 29 C.P.A. (salvo non doversi disapplicare questa stessa norma allorquando risulti in contrasto con i principi di effettività ed equivalenza delle tutele) invocando la previa disapplicazione della fonte anti-comunitaria la quale, venuta meno, lascia il provvedimento privo di base legale rendendolo, ancora una volta, illegittimo.
Torna ad essere, invece, indispensabile l’audizione della Consulta allorquando la norma comunitaria non è immediatamente efficace.
La questione si complica ulteriormente nel caso in cui il provvedimento amministrativo venga adottato sotto la vigenza di una data disciplina, successivamente colpita da una sopravvenienza comunitaria.
L’orientamento prevalente esclude l’obbligo di rimozione in autotutela da parte della P.A..
Ci si chiede, però, se ricominci a decorrere il termine per impugnarlo dinnanzi al G.A..
Di regola, la norma sopravvenuta non ha efficacia retroattiva, salvo che non lo preveda espressamente in deroga al tempus regit actum, consentendo la riapertura dei termini per impugnare il provvedimento che sia divenuto illegittimo.
La retroattività deve, peraltro, essere ragionevole altrimenti esponendo la stessa norma a censure di incostituzionalità. Se, poi, sulla legittimità del provvedimento si è addirittura formato giudicato non suscettibile di ulteriore aggiornamento (che quindi ha esaurito il suo processo di formazione), il diritto U.E. soccombe (salvo casi noti per la loro eccezionalità come quello Lucchini).
C’è, però, da dire che tutto quanto detto fin ora, almeno in parte, sembra essere stato rimesso in discussione dalle conclusioni cui è giunta l’Adunanza Plenaria in materia di proroga delle concessioni demaniali rilasciata in violazione art 49 TUE e Direttiva Bolkestein (Ad. Plen. del 9 novembre 2021, n. 18).
In siffatta pronuncia, infatti, il potere di disapplicare la norma interna in contrasto con il diritto U.E. direttamente efficace è stato esteso alla stessa P.A.., nonostante ciò comporti l’autorizzazione ad esercitare un’attività interpretativa tipicamente giudiziale (con tutto ciò che ne consegue in termini di professionalità e competenze necessarie in capo ai funzionari amministrativi, oltre che in termini di certezza del diritto).
Quanto, poi, ai provvedimenti amministrativi ormai già adottati in violazione della normativa Europea, l’Adunanza afferma che, caduta la legge-provvedimento in materia di proroghe, questi vanno considerati semplicemente tamquam non esset e lo stesso vale per i casi in cui si sia formato giudicato sulla loro, quanto meno per i segmenti del rapporto non ancora realizzatisi, anch’essi travolti dalla disapplicazione della legge-provvedimento anti-comunitaria.
Una statuizione che, inevitabilmente, mette in discussione il concetto di “stabilità” dei provvedimenti amministrativi rimasti inoppugnati o giudicati legittimi, ancorché in contrasto con diritto U.E..
Si attende la parola della C.G.U.E. adita sul punto dal Tar Lecce con sentenza del 2022, n. 743.