Lampi giuridici⚡: il riparto dell’onere della prova a cura dell’avv. Chiara Galderisi

image_print

 

“I meccanismi di riparto dell’onere della prova”

 

Nessuna posizione giuridica sostanziale può dirsi realmente meritevole di tutela se non si può dimostrare la sua sussistenza in giudizio.

Il diritto, infatti, si occupa principalmente di fatti controversi.

Prima di chiedersi “come” vada fornita la prova della legittimità di una determinata pretesa, occorre allora chiedersi a “chi” spetta il relativo onere.

Già lo studio dei meccanismi del riparto dell’onere della prova consente di testare la capacità dell’ordinamento di assicurare l’accertamento di una verità processuale quanto più corrispondente alla realtà.

 

 

Scheda sintetica a cura dell’avv. Chiara Galderisi

Redazione di IURA NOVIT CURIA ©

 

 

Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento.

Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cii l’eccezione si fonda”.

Così statuisce l’art 2697 cc collocato nel Libro Sesto del Codice Civile, subito dopo le disposizioni in materia di trascrizione. Anche la collocazione sistematica delle norme, infatti, non è da sottovalutare. Pubblicità e prova partecipano alla stessa finalità: assicurare la certezza dei rapporti giuridici.

La regola così enucleata può, poi, essere derogata dalle parti allorquando si discute di diritti disponibili (lettura a contrario dell’art 2698 cc) e non è stato il legislatore ad imporre un determinato formalismo ad substantiam o ad probationem ex art 2725 cc.

L’art 1988 codice civile sulla promessa di pagamento o ricognizione di debito, peraltro, introduce eccezionalmente la presunzione di esistenza del rapporto fondamentale a determinate condizioni (in disparte lo studio di “come” la prova vada fornita una volta individuato il soggetto su cui ricade il relativo onere: se in via documentale, per testimoni, avvalendosi di eventuali presunzioni, tramite confessione o giuramento).

Ciò che, però, più rileva è l’evoluzione che ha coinvolto l’art 2697 cc sotto il profilo applicativo, a testo normativo invariato.

Soluzioni interpretative raggiunte in ambito contrattuale, ma dense di riflessi anche nell’ambito della responsabilità aquiliana così come nelle aree di confine, ovvero gli altri “atti o fatti” idonei a generare obbligazioni ex art 1173 cc. Si pensi alla nota querelle sulla natura della responsabilità precontrattuale o di quella da contatto sociale, tra le quali implicazioni si cita proprio il criterio del riparto dell’onere della prova da utilizzare.

 

Ebbene, la prima fondamentale pronuncia in materia è stata quella delle Sezioni Unite con sentenza del 2001, n.13533.

I Giudici della nomofilachia intervengono a dirimere il dibattito instauratosi circa la portata del riparto dell’onere della prova di cui all’art 2697 cc allorquando si agisce ex art 1453 cc facendo valere l’inadempimento del debitore.

Un primo orientamento maggioritario, infatti, sosteneva che se nel riparto dell’onere della prova si deve tener conto della domanda, il creditore può limitarsi ad allegare (id est indicare) l’inadempimento del debitore quando insiste nell’ottenere l’esecuzione del contratto poiché il fatto costitutivo del diritto è il titolo negoziale, essendo invece tenuto a provare l’inadempimento allorquando agisce per la risoluzione il cui fatto costitutivo risiede appunto nella mancata esecuzione.

Risultava, invece, minoritario l’orientamento giurisprudenziale volto a ricondurre ad unità il sistema, evidenziando come il fatto costitutivo, tanto dell’azione di esatto adempimento quanto di quella di risoluzione, consistesse sempre e comunque nel titolo negoziale rimasto inadempiuto.

Le Sezioni Unite aderiscono a siffatto ultimo indirizzo.

In particolare, spiegano che alla base del citato art 2697 cc vi è una presunzione di persistenza del diritto.

La norma impone a chi vanta un diritto di provarne il fondamento, a quel punto presumendosi che lo stesso è sorto, ma non è stato soddisfatto.

La prova dell’esistenza di un titolo valido – nel quale sia dedotta la prestazione che si sostiene non essere stata eseguita (non così per l’immunità da vizi della cosa compravenduta come spiegano le Sezioni Unite con sentenza del 2019, n. 11748) – è sufficiente a far scattare suddetta presunzione, quale che sia la tutela che si invoca.

Del resto, sono le stesse esigenze di ordine pratico a imporre che ricada sul debitore la prova di aver compiuto un fatto positivo – l’adempimento. Risulterebbe, infatti, oltremodo dispendioso per il creditore fornire la prova di un fatto negativo, a discapito del suo diritto di difesa costituzionalmente garantito.

 

 

Senonché, chiarito il “chi”, occorreva precisare in “cosa” consistesse l’onere di allegazione o mera indicazione dell’inadempimento.

La sentenza in commento non si era, ancora, confrontata con ciascuno degli elementi costitutivi della responsabilità contrattuale.

Non era, infatti, ancora chiaro se l’inadempimento da allegare dovesse essere anche colposo così come non erano ancora specificati i meccanismi causali cui l’ordinamento giuridico attribuisce rilevanza.

 

Al primo aspetto problematico si sono dedicate le Sezioni Unite con sentenza del 2008, n. 577.

Il dato normativo di partenza, in questo caso, è stato l’art 1218 cc il quale stabilisce che il debitore che non esegue esattamente la propria prestazione risponde con tutti i suoi beni ex art 2740 cc, se non prova che l’inadempimento suddetto non è a lui imputabile.

La disposizione era stata, in origine, interpretata come fondante un criterio di imputazione dell’inadempimento oggettivo, per il quale era irrilevante la sussistenza o meno di una colpa del debitore che non avesse eseguito esattamente la prestazione.

La non imputabilità esimente si ravvisava solo in presenza di un fattore causale sopravvenuto ed estraneo alla sfera di controllo del debitore.

In altri termini, era sufficiente che la mancata soddisfazione del creditore fosse da correlare all’inadempimento del contratto, senza dover verificare anche se una diversa condotta fosse concretamente esigibile dal debitore.

E’ evidente che a tali condizioni ed in virtù di quanto affermato dalle Sezioni Unite del 2001, al creditore insoddisfatto sarebbe bastato depositare il titolo negoziale in giudizio e sostenere di non essere stato “pagato”, per assolvere gli oneri probatori su di lui incombenti.

 Senonché, nel tempo, si è affermato un diverso e ormai prevalente indirizzo pretorio in virtù del quale l’art 1218 cc va, piuttosto, letto in combinato disposto con l’art 1176 cc, generando un criterio di imputazione soggettiva che vede il debitore responsabile dell’inadempimento se non prova di aver tenuto un comportamento diligente anche se, ciò nonostante, insoddisfacente, a quel punto non per sua “colpa”.

Si è passati, allora, a discutere circa la possibilità di conservare il criterio di imputazione oggettivo nelle sole obbligazioni c.d. di risultato, ritenendo che in queste lo sforzo di diligenza non rilevasse e si è giunti ad una nuova distinzione, in termini di riparto, rispetto alle obbligazioni c.d. di mezzo, ove il debitore garantisce solo il massimo sforzo in termini di diligenza (come nella professione forense o in quella medica).

Con la pronuncia del 2008, anche suddetta distinzione sembra tramontare, e ancora una volta si tenta di ricondurre ad unità il criterio di riparto dell’onere della prova aggiungendo, tuttavia, un ulteriore tassello. Si afferma, infatti, che oltre ad essere colposo, l’inadempimento allegato deve anche essere “qualificato” ovvero astrattamente idoneo a cagionare il tipo di danno lamentato e provato.

Per comprendere esattamente la portata di siffatto ultimo arresto, però, occorre attendere un ulteriore intervento della Cassazione, con due sentenze del 2019, nn. 28991 e 28992

La S.C. spiega come il presupposto di partenza allorquando si discetta di riparto dell’onere della prova in materia contrattuale consiste nel fatto che, se si riesce a dimostrare l’esistenza del contratto o titolo negoziale in virtù del quale è sorto il diritto ad una determinata prestazione, si è già a metà dell’opera essendo predefinita la cerchia di soggetti cui è potenzialmente ascrivibile un danno e non si deve, di regola, indagare il primo segmento della causalità – materiale – che invece è onere del danneggiato dimostrare quando agisce ex art 2043 cc. Lì si deve innanzitutto individuare “chi” ha cagionato l’evento dannoso, “chi” ha violato il dovere gravante su tutti i consociati in modo indifferenziato del nemine laedere; nell’ambito della responsabilità contrattuale, invece, in virtù del principio della persistenza del diritto sopra citato, una volta individuato nel contratto “chi” era tenuto ad una determinata prestazione, basta allegare la mancata o inesatta esecuzione perché se ne desuma implicitamente l’evento di danno: esso coincide con la condotta lesiva. E’ pur sempre l’inadempimento.

Resta piuttosto da dimostrare il secondo segmento della causalità – giuridica – tra l’evento (inadempimento) e le conseguenze dannose, uniche a poter essere risarcite ex artt. 1223 cc. Sotto quest’ultimo profilo, responsabilità contrattuale e responsabilità extra contrattuale tornano a convergere in virtù del richiamo ex art 2056 cc.

Ebbene, quanto detto fin ora non può pedissequamente applicarsi alle obbligazioni di facere professionale. Torna, così, sotto diversa veste, la citata distinzione tra obbligazioni di mezzo e obbligazioni di risultato.

L’esercente la professione medica così come l’esercente la professione forense non si obbligano a soddisfare l’interesse finale del paziente o del cliente (corrispondente alla guarigione o alla vittoria della causa). Il contenuto dell’obbligazione dedotta in contratto si limita al massimo sforzo di diligenza esigibile in virtù delle conoscenze possedute dal singolo professionista.

Conseguentemente, allegare il mero inadempimento significa solo sostenere che il debitore non ha rispettato l’obbligo comportamentale su di lui incombente, ma non vale anche a dimostrare che l’evento dannoso (la mancata guarigione ovvero la soccombenza nel giudizio patrocinato dal debitore in qualità di avvocato) è correlato eziologicamnete al comportamento scorretto.

Inadempimento e evento di danno, in questo caso, non coincidono. E pertanto la causalità materiale non è assorbita nell’allegazione dell’inadempimento.

Riemerge, allora, la necessità che il creditore, oltre ad allegare l’inadempimento, dimostri compiutamente la connessione tra questo e l’aggravamento della pregressa situazione patologica (o l’insorgenza di nuove patologie). Solo una volta soddisfatti i suddetti oneri, può esigersi dal debitore la prova dell’adempimento o dell’impossibilità non imputabile.

Sotto il profilo pratico, ciascuna di suddette riflessioni rileva, naturalmente, non quando la prova degli elementi costitutivi della responsabilità contrattuale è stata raggiunta, ma nelle ipotesi dubbie. E’ quando la prova, all’esito dell’istruttoria, manca che occorre verificare a chi spettava fornirla per determinare la soccombenza in giudizio.