Lampi giuridici ⚡: la riserva di legge e la riserva di codice a cura dell’ avv.Galderisi

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Scheda sintetica a cura dell’avv. Chiara Galderisi

Redazione di IURA NOVIT CURIA ©

 

 

La prima fondamentale pronuncia che si dedica compiutamente a declinare il concetto di legge di “qualità” viene emanata dalla Corte Costituzionale interpellata sulla legittimità del principio ignorantia legis non excusat di cui all’art 5 c.p..

Oggi, l’era informatica non pone più un problema di conoscenza, ma piuttosto di intellegibilità.

Le parole della Consulta tornano, così, ad assumere una certa attualità come declinate dalla Corte di Strasburgo nel caso De Tommaso c/ Italia.

Solo in presenza di disposizioni chiare, determinate e dai riflessi applicativi prevedibili, il diritto penale può svolgere le funzioni che gli sono proprie, prima fra tutte quella rieducativa, “irrinunciabile” secondo le parole della Corte Costituzionale con sentenza del 2018, n. 149 interpellata sul regime dell’ergastolo ostativo di cui all’art 58 quater della legge sull’ordinamento penitenziario.

Per rispettare il principio della riserva di legge, pertanto, oggi non dovrebbe più essere sufficiente il solo involucro esterno, occorrendo una legge che sia “qualificata”.

Nessuno può essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso”. L’art 25, 2 Cost nel sancire il principio di legalità, al contempo, evidenzia l’ulteriore necessità che la funzione incriminatrice sia riservata esclusivamente al Parlamento, organo rappresentativo della collettività deputato a selezionare i comportamenti che, in quanto lesivi di diritti fondamentali, giustificano la restrizione della libertà personale ex art 13 Cost.

La riserva di legge, pertanto, costituisce un limite per il giudice così come per il potere esecutivo a garanzia dei cittadini.

Senonché, la “crisi della legge” che accomuna diverse branche ordinamentali ha coinvolto anche il settore penale, alimentando, da un lato, il mai sopito dibattito sulle c.d. norme penali in bianco nel tentativo di definire le condizioni nel rispetto delle quali è possibile demandare a fonti di rango subordinato l’integrazione del precetto penale e, dall’altro, sollecitando un controllo di “qualità” su leggi primarie, quindi formalmente legittimate a regolamentare la materia, eppure carenti sotto il profilo contenutistico. 

La prima fondamentale pronuncia che si dedica compiutamente a siffatto ultimo profilo viene emanata dalla Corte Costituzionale interpellata sulla legittimità del principio ignorantia legis non excusat di cui all’art 5 c.p..

Siffatta storica sentenza del 1988, n. 364, generalmente ricordata per le sue importanti precisazioni in materia di colpevolezza, evidenziò altresì come, per poter rispettare il combinato disposto di cui all’art 27, 1 e 3 co Cost, non si potesse prescindere dalla previa analisi del rapporto tra il soggetto e la legge penale che è chiamato a rispettare.

Questo il significato di colpevolezza c.d. normativa.

Se la violazione è ascrivibile ad un deficit di conoscenza incolpevole, legata ad un inadempimento dello stesso legislatore, non si può muovere alcun rimprovero a colui che l’ha perpetuata.

Oggi, l’era informatica non pone più un problema di conoscenza (o di possibile mancata diffusività come chiariscono, in un’ottica repressiva, le Sezioni Unite intervenute nel 2020 a escludere che si debba ricercare il concreto pericolo di diffusione del materiale pedopornografico prodotto ex art 600 ter c.p.), ma piuttosto di intellegibilità.

Le parole della Consulta tornano, così, ad assumere una certa attualità come declinate dalla Corte di Strasburgo nel caso De Tommaso c/ Italia.

Ancorché il diritto sovranazionale non riproduca il principio della riserva di legge parlando, piuttosto, di diritto, eventualmente anche di matrice giurisprudenziale, non può fare a meno di “norme” di qualità.

Solo in presenza di disposizioni chiare, determinate e dai riflessi applicativi prevedibili, il diritto penale può svolgere le funzioni che gli sono proprie, prima fra tutte quella rieducativa, “irrinunciabile” secondo le parole della Corte Costituzionale con sentenza del 2018, n. 149 interpellata sul regime dell’ergastolo ostativo di cui all’art 58 quater della legge sull’ordinamento penitenziario.

Per rispettare il principio della riserva di legge, pertanto, oggi non dovrebbe più essere sufficiente il solo involucro esterno, occorrendo una legge che sia anche “qualificata”. 

Ebbene, una più recente pronuncia della Corte Costituzionale, sentenza del 2022 n. 105 in materia di utilizzo e somministrazione di farmaci al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti, offre l’occasione per rimeditare la portata dei principi fin qui enucleati.

In virtù della sopra esplicata ottica garantista, con legge delega del 2018, il Parlamento ha affidato al Governo ai sensi dell’art 76 Cost il compito di riorganizzare il diritto penale, trasferendo nel Codice Rocco la maggior parte delle norme incriminatrici che non fossero contenute in altrettanti testi organici. La tecnica legislativa introdotta con la “riserva di codice” di cui all’art 3 bis c.p. risponde ad esigenze di offensività, ma soprattutto ai principi di legalità, determinatezza e conoscibilità del precetto penale, assicurando al contempo la suddetta funzione rieducativa della pena.

Non sono stati, invece, riconosciuti al Governo poteri innovativi.

Senonché, se si analizza il testo dell’art 586 bis c.p., prima contenuto nella legge del 2000 n. 376, si nota come la distinzione originaria, tra la fattispecie di utilizzazione e somministrazione di sostanze dopanti al fine di modificare le prestazioni agonistiche degli atleti e quella di commercio a dolo generico, scompare per cedere il posto ad una norma a più fattispecie ciascuna connotata da dolo specifico.

In disparte le considerazioni circa l’opportunità o meno di una simile equiparazione, considerato che il fine agonistico non sembra compatibile con chi commercia sostanze dopanti, al massimo spinto da scopi lucrativi, ciò che viene denunciato dinnanzi alla Consulta è la violazione del procedimento di normazione, essendosi il Governo appropriato indebitamente di una funzione “creativa” del diritto penale che non gli compete.

In particolare, inserendo il dolo specifico anche per l’ipotesi di commercio di sostanze dopanti si è realizzata una abolitio parziale della vecchia disposizione per la quale era sufficiente il dolo generico, con i noti effetti in materia di successione di leggi penali nel tempo di cui all’art 2, 2 co c.p.. Il tutto al di fuori di ogni garanzia costituzionale, questa volta soprattutto dal punto di vista dei cittadini.

A latere la problematica concernente le c.d. zone franche dal sindacato di legittimità. Tendenzialmente, infatti, si nega alla Consulta la possibilità di intervenire con pronunce in malam.

In principio, addirittura, la stessa era costretta a dichiarare l’inammissibilità della questione dal momento che, anche un eventuale accoglimento della rimessione, non avrebbe comunque comportato alcun effetto nel caso di specie. Prassi superata valorizzando la rilevanza della questione nell’interesse dell’ordinamento.

Ci sono, però, delle eccezioni.

Allorquando ad essere censurato è proprio il procedimento normativo, lamentando la vulnerazione del principio di riserva di legge, la Corte Costituzionale è tenuta a rilevare l’illegittimità della norma sottoposta al suo scrutinio, a prescindere dall’effetto che deriva dalla declaratoria di incostituzionalità sul piano ordinamentale.

Lo stesso vale nei casi in cui ad essere sospettata di incostituzionalità è una norma eccezionale di favore, la cui eliminazione lascia riespandere la disciplina generale dotata di sufficiente copertura legislativa.

Sotto il profilo temporale, peraltro, i fatti commessi quando era in vigore la norma originaria e che, ex art 2, 4 co cp, avrebbero potuto beneficiare della più favorevole sopravvenienza, poi dichiarata incostituzionale, tornano ad essere incriminati in base alla disciplina che ha trovato riespansione.

Resta, invece, fermo il principio di irretroattività per i fatti commessi mentre era in vigore la legge dichiarata incostituzionale. 

Ciò che resta da capire è che spazio può assumere il sindacato della Consulta rispetto al mutato concetto di riserva di legge.

Senz’altro si può tacciare di incostituzionalità lo sconfinamento del Governo nell’ambito riservato alla potestà legislativa parlamentare, ma si può caducare una norma anche perché poco chiara o imprevedibile, appunto “non qualificata”. Si tratta, in sostanza, di un sindacato sulla determinatezza della fattispecie, ambito in cui non si vantano numerose sentenze di accoglimento.

Ma se in principio si è evidenziato come la riserva di legge si impone tanto al potere esecutivo quanto al Giudice (declinato nel divieto di interpretazione analogica), in quest’ultimo caso la Consulta non dovrebbe poter intervenire.

Il Giudice della nomofilachia è, da sempre, la Corte di Cassazione.

Eppure, con la sentenza del 2021, n. 98 circa la portata applicativa del reato di maltrattamenti ai danni di “conviventi”, la Corte Costituzionale si esprime anche sulla questione interpretativa.

 Quanto alla “riserva di codice”, essendo introdotta con norma di rango primario, tecnicamente dovrebbe poter essere derogata da una qualsivoglia legge sopravvenuta.

Il legislatore che se ne discosti, pertanto, non dovrebbe poter essere censurato dinnanzi alla Corte Costituzionale, salvo ritenere (come parte della dottrina sta tentando prospettare) che la “riserva di codice” abbia fondamento costituzionale al pari della “riserva di legge”.