A cura della Redazione di IURA NOVIT CURIA ©
avv.to Diotima Pagano
Tre pronunce della Consulta, ravvicinate nel tempo, diverse per argomenti e soluzioni processuali adottate, si segnalano unitariamente per la comune ispirazione che sottendono.
Principiando dall’ultima, la Corte Costituzionale ha eliminato l’art. 13 della legge nr. 47/1948 in tema di diffamazione a mezzo stampa: la norma prevedeva, in modo vincolato, la pena della reclusione.
E’ la più concreta manifestazione (al di là delle frasi anche ad effetto) della primazia del diritto alla libertà di pensiero che ha nel giornalismo militante, la base effettiva della crescita democratica, contribuendo a formare una opinione pubblica informata e quindi responsabile.
Diversissime dalla prima ed anche fra loro, ma accomunate dalla soluzione adottata dalla Consulta, sono le sentenze n. 120/2021 e 151/2021.
La soluzione meramente processuale di inammissibilità, non deve fare velo all’importanza dei temi e delle indicazioni offerte dalla Corte.
In entrambe il metodo di lavoro scelto dalla Consulta è quello di spiegare tutte le criticità che le questioni sollevate pongono, la loro rilevanza e fondatezza, indicare soluzioni, ma si arresta al passo finale, solo per evitare una invasione di campo, in quanto spetta al legislatore intervenire in materia, con una attrezzata normativa, ponderativa fra più scelte possibili.
Così la prima sentenza – nr. 120/2021 – la Corte Costituzionale precisa le gravi anomalie che caratterizzano la riscossione coattiva da parte dello Stato e che richiedono una riforma del cd aggio esattoriale.
Vale citare testualmente uno dei punti salienti:
“In base al consolidato orientamento della Corte di cassazione l’aggio deve essere inteso come «finalizzato non tanto a remunerare le singole attività compiute dal soggetto incaricato della riscossione, ma a coprire i costi complessivi del servizio» e assume «natura retributiva e non tributaria», «trattandosi del compenso per l’attività esattoriale».
È del tutto evidente, però, che tale remunerazione, deve restare coerente con la sua funzione e non assumere un carattere arbitrario, come invece può facilmente verificarsi nel caso (non infrequente, per le ragioni sopra viste) di eccessiva entità del costo del non riscosso addossato al contribuente “solvente”.
In questa situazione, infatti, il meccanismo di finanziamento della funzione di riscossione degenera nel paradosso di addossare su una limitata platea di contribuenti, individuati in ragione della loro solvenza (tardiva rispetto alla fase dell’accertamento dei tributi), il peso di una solidarietà né proporzionata, né ragionevole, perché originata, in realtà, dall’ingente costo della «sostanziale impotenza dello Stato a riscuotere i propri crediti» nei confronti dei contribuenti insolventi.
È opportuno precisare che questa situazione di inefficienza della riscossione coattiva, che incide negativamente su una fase essenziale della dinamica del prelievo delle entrate pubbliche, non solo si riflette di fatto sulla ragionevolezza e proporzionalità dell’aggio, ma determina altresì una grave compromissione, in particolare, del dovere tributario: tale dovere, riconducibile al valore inderogabile della solidarietà di cui all’art. 2 Cost., è «preordinato al finanziamento del sistema dei diritti costituzionali, i quali richiedono ingenti quantità di risorse per divenire effettivi».
Si deve ora ribadire che un’adeguata riscossione è essenziale non solo per la tutela dei diritti sociali, ma anche di gran parte di quelli civili, data l’ingente quantità di risorse necessaria al funzionamento degli apparati sia della tutela giurisdizionale sia della pubblica sicurezza, entrambi indispensabili per la garanzia di tali diritti.
Da questo punto di vista, la descritta, grave inadeguatezza dei meccanismi legislativi della riscossione coattiva nel nostro Paese concorre a impedire «di fatto» alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli di cui all’art. 3, secondo comma, Cost.: la funzione della riscossione, infatti, è essenziale «condizione di vita per la comunità», al punto da esprimere un interesse «protetto dalla Costituzione (art. 53) sullo stesso piano di ogni diritto individuale» (sentenza n. 45 del 1963).
È quindi urgente che il legislatore statale provveda a riformare tali meccanismi.”
La sentenza non è passata inosservata alla dottrina (Cfr. E. De Mita su Il sole 24 ore del 13 luglio 2021) che ha rilevato come “i contenuti di tale pronuncia.. sottendono quella posizione del diritto tributario come pietra angolare dello Stato di diritto democratico, secondo la lezione di Ezio Vanoni”.
La grave situazione di inefficienza della riscossione coattiva, così ben delineata dalla sentenza, rende quest’ultima – afferma ancora De Mita – “già la relazione illustrativa delle riforma che la Corte sollecita come «indifferibile».”
Uguale soluzione sollecitatoria è alla base della sentenza nr. 151/2021.
La Corte sposa in pieno la tesi che è un grave vulnus procedimentale l’assenza di un termine finale entro cui l’amministrazione debba concludere il procedimento di accertamento ed irrogazione di una sanzione amministrativa.
La norma di riferimento è l’art. 18 della L. nr. 689/1981. Osserva la Corte: “A fronte, tuttavia, della specifica esigenza di contenere nel tempo lo stato di incertezza inevitabilmente connesso alla esplicazione di una speciale prerogativa pubblicistica, quale è quella sanzionatoria, capace di incidere unilateralmente e significativamente sulla situazione giuridica soggettiva dell’incolpato, non risulta adeguata la sola previsione del termine di prescrizione del diritto alla riscossione delle somme dovute per le violazioni amministrative, previsto dall’art. 28 della legge n. 689 del 1981.”
E’ necessario, in altri termini, che il Potere amministrativo sanzionatorio si esplichi in tempi certi e predefiniti: iniziali e finali.
Si afferma così una esigenza insopprimibile in uno Stato di diritto: la temporalizzazione dei Poteri Pubblici, specie di quelli che incidono in modo più diretto sulle sfere giuridiche del cittadino-amministrato.
Sentenza dunque massimamente garantista, che si inscrive –preme sottolinearlo — nell’ottica della riforma della giustizia penale voluta dalla ministra Cartabia (ex presidente della Consulta) che attraverso la formula processuale della improcedibilità, vuole temporizzare e rendere previamente conoscibile, l’arco di tempo in cui un cittadino può trovarsi sottoposto ad un procedimento penale.